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La falsa modernità di Marchionne e l’attualità di Karl Marx

Premessa

Secondo la critica marxista dell’economia politica, dal punto di vista del capitale, gli operai, ma più in generale i lavoratori, non sono uomini ma, in quanto possessori e venditori obbligati dell’unica merce in loro possesso, la forza lavoro, sono solo una merce, un oggetto, che entra nel ciclo della produzione delle merci in un modo del tutto particolare. A differenza della macchina che, in quanto capitale costante non crea valore ma cede al prodotto, alla cui produzione essa serve, solo e soltanto il suo valore; invece l’operaio, supponendo una giornata lavorativa di otto ore, dopo averne consumata una parte, per esempio quattro ore, per la produzione di una quantità di merci equivalente al valore del suo salario (tempo di lavoro necessario), poiché deve lavorare ancora per altre quattro ore, produce di conseguenza una quantità di merci doppia del valore del suo salario. Ne consegue che il capitalista che lo impiega si appropria di quattro ore del lavoro dell’operaio senza retribuirlo. Il profitto, dunque, altro non è che lavoro non retribuito (pluslavoro o, espresso in termini di valore, plusvalore) ovvero plusvalore estorto alla forza-lavoro.[1]

Seppure in estrema sintesi, questa è la teoria marxista del valore-lavoro. Essa implica che: a) in generale solo il lavoro degli uomini crea nuovo valore; b) è solo grazie allo sfruttamento della forza-lavoro che un capitale D investito nella produzione di merci, alla fine, quando la merce prodotta sarà venduta, potrà risultare pari a D’ dove D’ risulterà pari a: D+pv e dove pv rappresenta il plusvalore estorto alla forza- lavoro.

Nel corso del tempo, per contestare la validità della teoria del valore-lavoro, sono sorte una infinità di diverse scuole di pensiero economico. Fra le tante, quella che forse ancora oggi gode di maggiore credito è quella neoclassica secondo cui il plusvalore non deriverebbe dallo sfruttamento della forza-lavoro, ma piuttosto dal tipo di Tecnica adoperata.

Rimarrebbe da chiedersi – scrive C. Napoleoni che di questa scuola è stato, in Italia, uno dei massimi esponenti- da che cosa dipende che il sistema economico abbia o non abbia sovrappiù, e quindi da che cosa dipende che le sue industrie conseguano o non conseguano un profitto. In via immediata la risposta è che ciò dipende dal tipo di tecnica adoperata… i modi di produzione possono essere tali che, una volta sostituiti i mezzi di produzione consumatisi, il sistema viene a disporre di ancora di certe quantità di certe merci, ossia di un sovrappiù, il cui valore costituisce il profitto del sistema stesso.[2]

Sennonché, se così fosse, l’introduzione nei processi produttivi di nuove macchine, a parità di tutte le altre condizioni, dovrebbe dare luogo a un maggior profitto senza la necessità di incrementare ulteriormente lo sfruttamento della forza-lavoro ovvero l’intensità del lavoro e/o di prolungare la giornata lavorativa. Ma in realtà è accaduto sempre il contrario. Per esempio, l’introduzione della macchina a vapore, che è stata all’origine della grande industria, determinò prima un forte prolungamento della giornata lavorativa fino a raggiungere le 16 ore giornaliere e in secondo tempo, quando fu imposta “una giornata lavorativa normale limitata per legge”, anche “il fenomeno dell’intensificazione del lavoro[3].

Il fatto è che le macchine, come abbiamo detto prima, non creano valore, ma incrementano la produttività del lavoro per cui l’introduzione di nuove macchine nei processi produttivi consente di produrre una medesima quantità di merci con un numero minore di operai o anche una quantità maggiore di merci con lo stesso numero di operai. Più in generale: di impiegare nella produzione, relativamente al capitale costante investito, un numero minore di operai. Quindi, in ultima istanza, l’utilizzo capitalistico della macchina si risolve sempre e soltanto in un mezzo per estorcere un’accresciuta quantità di plusvalore.

In altre parole, la macchina, anziché liberare l’uomo dalla fatica, si è sempre trasformata nel suo peggiore nemico.

D’altra parte se così non fosse il capitalista non avrebbe nessuna convenienza a investire in essa. Da qui quel “paradosso economico che il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale”[4].

Se i politici, i sindacalisti e la varia umanità che recentemente si sono schierati con la Fiat avessero prestato la benché minima attenzione al contenuto dell’accordo che, sotto il ricatto del licenziamento in massa, è stato imposto ai lavoratori di Pomigliano, Mirafiori e ultimamente anche della Bertoni, probabilmente molti dei peana dedicati alla modernità dell’accordo ci sarebbero stati risparmiati. Così facendo, però, avrebbero dovuto riconoscere la validità e tutta l’attualità della critica marxista dell’economia politica nonché il fatto che ormai il modo di produzione capitalistico è entrato in uno stadio per cui ogni progresso tecnologico si traduce inesorabilmente in un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutti coloro che vivono vendendo forza-lavoro. Che evidentemente è quel volevano celare. Anche la Fiom, visto che ha incentrato la sua opposizione all’accordo più contro gli aspetti giuridici di alcune norme contrattuali introdotte per contenere il suo potere, che contro i contenuti dell’accordo.

L’accordo nei suoi dettagli

L’accordo, tra le altre clausole da medioevo prossimo venturo[5] prevede, infatti, per la produzione in catena di montaggio, la ridefinizione dell’organizzazione produttiva del lavoro mediante la definitiva introduzione, dopo una fase sperimentale, della metodologia WCM (world class manufacturing); e una nuova organizzazione dei turni e delle pause all’interno della giornata lavorativa.

Il nuovo sistema è denominato ERGO-UAS (universal analyzing system), che – come si legge nel testo dell’accordo: “ comporta la valutazione ergonomica del sovraccarico biomeccanico relativo a tutto il corpo, valutando il carico statico, il carico dinamico, le applicazioni di forza, le vibrazioni e la movimentazione manuale dei carichi e, conseguentemente, le condizioni di lavoro in relazione alle operazioni/cicli di lavoro e alle posture degli addetti”[6].

Questo sistema, prima di essere definitivamente adottato in catena di montaggio a Mirafiori e a Pomigliano, è stato sperimentato, a partire dal 2008, nella produzione della Mito; mentre le più importanti case automobilistiche hanno iniziato ad adottarlo già nel 2000.

La nuova metrica

Il sistema di analisi Ergo-Uas unisce uno strumento specifico di metrica del lavoro (metodica Uas della serie Misurazione tempi e metodi [Mtm]), basato sulle comuni valutazioni di tempi e metodi, con uno più prettamente ergonomico (una lista di controllo per la valutazione del rischio muscolo-scheletrico, denominata European assembly worksheet [Eaws]), che fornisce indici di rischio secondo una classificazione semaforica (verde = basso; giallo = medio; rosso = elevato).

L’insieme di valori prevede la misurazione delle azioni di forza, della postura, della movimentazione dei carichi, l’azione dell’arto superiore ad alta frequenza e a basso carico. La metrica del lavoro quindi riveste un ruolo chiave per la definizione della produttività nella catena di montaggio FIAT, perché, indipendentemente dal lavoratore impiegato, definisce il tempo necessario per una determinata operazione.

Nel determinare questo tempo necessario si suppone che “il lavoratore sia ben allenato e che conosce bene il lavoro e che dà costante rendimento senza stancarsi[7], insomma: una macchina perfetta.

Il tempo base, o necessario, è ottenuto sia attraverso tabelle e valori Mtm ufficiali, sia attraverso particolari cronometraggi eseguiti, sul posto di lavoro, da personale tecnico specializzato, osservando e misurando i tempi che il lavoratore impiega per svolgere le singole fasi dell’operazione ricavandone quindi la sua velocità di esecuzione. Ovviamente, per ottenere un valore abbastanza buono, si faranno più rilievi cronometrici che verranno poi mediati con determinati valori tabellari di riferimento. Solo se i tempi rientrano in quelli tabellari, il lavoratore ben allenato verrà ritenuto idoneo o meno alla catena di montaggio e ai nuovi ritmi richiesti.

Per rendere misurabili le azioni dell’operaio, ogni azione viene scomposta in azioni elementari- base più azioni ausiliarie o di supporto a quelle elementari.  L’insieme di questi movimenti permette il posizionamento del pezzo specifico da una posizione iniziale a una finale e, mediante i tempi UAS previsti con le metriche tabellari di riferimento, danno il tempo complessivo massimo entro cui il singolo lavoratore dovrà svolgere il suo compito.

E poiché il sistema tiene conto anche della fatica che comporta l’azione base da compiere e prevede perciò un fattore di maggiorazione che si traduce in un incremento percentuale del valore di base dell’operazione stessa, nessuna ulteriore attività aggiuntiva (detta Nvaa-  not valued added activity) viene presa in considerazione.

Per cui il tempo necessario per un’operazione standard in catena di montaggio è dato dalla formula: Tstd = Tbase x (1 + Fmagg) (1), dove Tstd è il tempo standard, Tbase è il tempo base previsto nelle tabelle metriche per ogni operazione moltiplicato per (1 +Fmagg) il valore di maggiorazione relativo alla fatica più un valore costante unitario. “Ma ormai – lamenta Ugo Bolognesi, operaio di linea – le operazioni sono quasi tutte all’1 per cento. Con il sistema precedente c’era una maggiorazione standard del 5-7 per cento [accordo sindacato azienda del 1971- ndr] e così, nel passaggio, ci abbiamo perso[8].

Risulta evidente dalla formula, come dice Bolognesi, che il tempo richiesto per un’operazione non si discosta molto dal tempo previsto per quella base definita dalla metrica tabellare. Infatti, tenendo basso il fattore di maggiorazione, abbiamo che il tempo previsto per un’operazione standard in catena di montaggio corrisponde all’incirca al tempo base previsto. In soldoni, l’operaio ha un recinto temporale molto più stringente entro cui realizzare l’azione e prepararsi per la successiva, non avendo in ultima analisi nessuna possibilità, una volta definito dall’accordo sindacale, di variare il fattore di maggiorazione.

L’importanza della postura ergonomica

Pasquale Loiacono operaio di Mirafiori dice: In fabbrica io sono addetto allo smistamento dei pezzi –– e questi pesano 6 o 7 chili l’uno. La mansione è sempre la stessa, tutto il giorno per otto ore e il mio non è il lavoro peggiore. Noi lavoriamo in piedi tutto il tempo … e il montaggio di una boccola alla scocca dell’auto si ripete con movimenti lenti delle mani e delle dita per ore e ore”[9]. Già da queste poche battute, si comprende fino in fondo l’importanza della postura corretta sulla catena di montaggio. A Marchionne chiaramente interessa poco se l’operaio si stanchi o che stia in piedi molto tempo mentre monta pezzi; quel che più gli interressa è che alleggerendo il carico biomeccanico e parallelamente migliorando le posture di lavoro con posizioni ergonomiche meno affaticanti, aumenta la produttività e si riducono al minimo le pause necessarie per riprendere fiato dopo una serie di azioni stancanti.

Il sistema, che analizza il carico biomeccanico su muscoli e scheletro, è denominato EAWS (European assembly worksheet). Senza entrare troppo nei dettagli, questo sistema dopo aver sezionato fin nei minimi particolari il corpo dell’operaio in azione sulla catena di montaggio, studia con particolare attenzione: a) le posture congrue del corpo, b) azioni di forza mano/dita, c) movimentazione di carichi, d) vibrazioni e compressioni, e) movimenti di arti superiori, f) movimenti di arti inferiori. A questo studio, l’EAWS associa tramite tabelle, i comportamenti corretti a cui l’operaio deve attenersi. Il risultato combinato di questa analisi, unito ai valori di riferimento tabellare, produce due indici che, semplificando, riportano:

a)      la misura del rischio di breve termine a cui il sistema osteo-muscolare viene esposto;

b)      la misura del rischio di medio-lungo termine a cui spalla-braccio-mano è esposto.

Come detto sopra, a questi valori-indici viene associato un fattore di rischio, secondo lo schema semaforico e, attraverso un punteggio, si cerca di apportare delle correzioni ergonomiche per quelle operazioni che hanno semaforo rosso. E’ chiaro, come per le metriche standard e base, che l’interesse dell’azienda è a portare le posture dell’operaio sulla catena di montaggio tutte sotto un semaforo verde, perché questo permette di ottimizzare i movimenti e renderli nel tempo meno dannosi per il fisico.

Pause, turni, straordinari, assenteismo

Nell’accordo firmato per Mirafiori e Pomigliano si legge testualmente: ”Le soluzioni ergonomiche migliorative, derivanti dall’applicazione del sistema Ergo-UAS, permettono, sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause di 10 minuti ciascuna, fruite in modo collettivo, nell’arco del turno di lavoro che sostituiscono le attuali tre pause di cui due da 15 minuti e una di dieci”. Ed ancora: “Per tutti i restanti lavoratori diretti e collegati al ciclo produttivo le soluzioni ergonomiche migliorative permettono la conferma della pausa di 20 minuti, da fruire anche in due pause di 10 minuti ciascuna. I 10 minuti in più sulle linee a trazione, saranno monetizzate sotto la voce indennità di prestazione collegata alla presenza”. All’interno della giornata lavorativa di otto ore, quindi, sono previsti trenta minuti di pausa rispetto ai quaranta precedenti. Inoltre, poiché non c’è stato ancora qualche fantasioso ingegnere che abbia pensato a un robot che, come nel famoso film Tempi moderni di Charlot, nutra l’operaio mente lavora, strategicamente, l’accordo prevede che la pausa mensa possa essere spostata per tutti i turni nell’ultima mezz’ora cosi che un eventuale ritardo di produzione possa essere recuperato senza interruzioni del turno stesso.

La turnazione prevede tre schemi orari che saranno utilizzati in base ai carichi produttivi, e verranno applicati a operai, impiegati, quadri:

  1. Schema orario da 15 turni (8 ore x 3 turni x 5 giorni la settimana)
  2. Schema orario da 18 turni (8 ore x 3 turni x 6 giorni la settimana)
  3. Schema orario da 12 turni (10 ore x 2 turni x 6 giorni la settimana)

Il primo schema è quello delle 40 ore classiche, distribuito su tre turni su 5 giorni a settimana. Ma a regime col nuovo contratto sarà applicato il secondo schema, con un prolungamento marcato della settimana lavorativa in quanto alle 40 ore base, si aggiungono 8 ore, per un totale di 48 ore settimanali, gestite su tre turni giornalieri. Le 8 ore aggiuntive saranno considerate come straordinario. L’ultimo schema sarà utilizzato per la prima volta in via sperimentale nella fase di passaggio dal primo schema al secondo con l’utilizzo degli impianti per 6 giorni a settimana. Questo schema orario prevede una durata della giornata lavorativa di 10 ore!

Questi schemi orari saranno applicati soprattutto nelle linee a trazione meccanizzata. Per i turni centrali della categoria impiegatizia, la situazione rimane sostanzialmente quella attuale.

Lo straordinario potrà essere utilizzato per 120 ore annue. E per di più, come si legge nell’accordo: “Senza preventivo accordo sindacale, da effettuare a turni interi, secondo gli schemi di orario utilizzato e nelle giornate di riposo. L’azienda comunicherà ai lavoratori, di norma con 4 giorni di anticipo[10]. Infine: “Il lavoro straordinario, nell’ambito di 200 ore pro capite, potrà essere effettuato per le restanti 80 ore nelle giornate di sabato e nelle giornate di riposo, previo accordo sindacale[11].

La voce assenteismo svela tutta l’arroganza dell’azienda. Infatti, con una commissione detta paritetica tra sindacati (solo quelli firmatari dell’accordo) e Fiat plant, si vuole contrastare il fenomeno, nel modo seguente:

  1. Da gennaio a luglio 2011 si studierà l’andamento del fenomeno. Se il dato sarà superiore al 6%, i dipendenti che si assenteranno per non più di 5 giorni, a cavallo di giorni festivi o di ferie o di riposo settimanale, e per gli stessi motivi, non riceveranno nessun trattamento per il primo giorno di malattia, di norma erogato per il 60% dall’INPS e il 40% dall’azienda.
  2. Da gennaio 2012, qualora il tasso di assenteismo per malattia dell’anno precedente dovesse risultare superiore al 4%, i dipendenti non riceveranno, per i primi due giorni a carico dell’azienda, alcun compenso.
  3. Da gennaio 2013, qualora il tasso di assenteismo per malattia dell’anno precedente dovesse risultare superiore al 3.5%, si combineranno le sanzioni dei punti precedenti.

E’ chiaro che questi valori percentuali di riferimento sono quelli fissati a priori. Perché l’accordo sia efficace, soprattutto per inchiodare l’operaio alla catena di montaggio, devono essere ridotti al minimo tutti i tempi morti (not valued added activity), e a maggior ragione l’assenteismo, dannosissimo per il just in time[12] su cui lo schema produttivo WCM è basato.

E che le cose stessero esattamente in questi termini lo hanno ben compreso innanzitutto i lavoratori interessati, come peraltro dimostrano i risultati, reparto per reparto, del referendum fatto a metà gennaio di quest’anno a Torino.

Il no all’accordo è stato totale nei reparti del montaggio e pari al 50 per cento nei reparti lastratori. Favorevole e determinante invece la quasi totalità degli impiegati, per i quali con l’accordo non cambia sostanzialmente nulla, come pure favorevoli sono stati i reparti dei verniciatori e i votanti nel seggio notturno.

E’ evidente che chi conosce il lavoro in catena di montaggio ha capito bene cosa gli riservava la ristrutturazione di Marchionne e l’ha rifiuta anche a rischio di perdere il posto di lavoro.

D’altra parte non è la prima volta nella storia del capitalismo che condizioni di lavoro al limite delle umane possibilità e un valore della forza-lavoro fortemente svalutato hanno reso per l’operaio più conveniente l’accattonaggio o il lavoro occasionale di quello cosiddetto a padrone.[13]

Un caso di studio

In un documentario del 1995 un lavoratore racconta la sua esperienza nella fabbrica SATA-Fiat di Melfi e a un certo punto dice: “Con i turni a scorrimento, mi capitavano anche tre turni consecutivi di notte. Io ricordo solo il buio, perdevi le relazioni con l’esterno. Il tutto si riduceva a partire da casa alle 20 e ritornare alle 7 del giorno successivo alla fine del turno. Si dormiva fino alle 18, si mangiava qualcosa e si ripartiva per quello successivo”. L’operaio continua spiegando: “Nel turno di mattina, ti svegli alle 4 che è buio, dopo il lavoro torni a casa verso le 15, ti riposi un po’ e alle 18 ti permetti un piccolo svago, ma dopo cena subito a letto, per la solita levataccia per il turno del giorno successivo. Relazionarsi con questi tipi di ritmo, è davvero impossibile. Tutto si riduce a mangiare, lavorare, dormire ”. Mentre durante il turno di lavoro è: ”Una continua sfida con le macchine, con la mente concentrata sull’operazione da compiere: avvita bulloni, schiaccia il bottone, parte la macchina; di nuovo e ancora di nuovo sempre le stesse operazioni, per otto ore e più. Uscivi dall’inferno, finito il turno”. Stremato dai ritmi tremendi di lavoro, decide: “ A fronte di tutto questo stress, di questa vita inutile, al ritorno dalle ferie al solito turno di notte; maturai la definitiva avversione verso questo lavoro. Così alle 10 della sera, invece di stare in fabbrica, telefonai e dissi che non ci sarei più andato”. L’intervista si chiude ricordando un dato significativo: nel 1995 il tasso di abbandono volontario nel gruppo Fiat in media è al 4%; mentre a Melfi il tasso sale al 7%. [14] Questo a Melfi, considerata dai corifei del capitale come modello produttivo; figuriamoci come sarà a Mirafiori e a Pomigliano con il nuovo accordo che peggiora ulteriormente le condizioni lavorative, sperimentate nello stabilimento lucano.

L’abbandono volontario e l’assenteismo sono problemi storici per le fabbriche automobilistiche di tutto il mondo.

In uno studio fatto nel 1970 e pubblicato da Fortune, si legge in Lavoro e Capitale Monopolistico di H. Braverman: “L’assenteismo è cresciuto rapidamente; di fatto è raddoppiato rispetto al decennio scorso, alla General Motors e alla Ford, si è arrivati al punto che il 5% degli operai manca ogni giorno senza spiegazioni, mentre in certi giorni, specialmente il venerdì e il lunedì, questa cifra tocca il 10%. L’anno scorso le dimissioni alla Ford sono state del 25,2 %. [15]. Né le cose andavano molto diversamente in Italia. Nel 1971 il Wall Street Journal scriveva: ”La Fiat il più grande datore di lavoro italiano, su 180.000 lavoratori, denunciava il lunedì l’assenza di 21.000 lavoratori e una media giornaliera di assenteismo di 14.000 unità, mentre a livello nazionale era al 4%. Ciò veniva attribuito alla <<crescente insofferenza dei giovani per la disciplina della catena di montaggio>>[16]. E sempre nel 1971: “Nella fabbrica di Jefferson Avenue della Chrysler Corporation di Detroit, si denunciava un tasso medio di assenze giornaliere del 5% e un avvicendamento medio annuale di quasi il 30% [17].

Lavoratori sfaccendati o malessere per condizioni di lavoro a dir poco disumane?

Nel gennaio del 1972– ci informa ancora Braverman- uno sciopero molto discusso indetto nello stabilimento della General Motors a Lordstown, Ohio, ha dato al mondo intero un’idea delle condizioni esistenti in questa fabbrica, la <<più avanzata>> e <<automatizzata>> del settore, considerata dall’azienda come lo stabilimento pilota per il futuro. Secondo i ritmi previsti, la linea di montaggio a Lordstown produce 100 Vegas all’ora, dando a ogni operaio 36 secondi per portare a termine il lavoro su ogni veicolo e tenersi pronto per quello successivo [18].

Come avvenuto per l’operaio lucano con i ritmi infernali di lavoro, la causa diretta dello sciopero alla General Motors, era stato l’aumento dell’intensità delle operazioni e dei tempi sempre più stringenti per realizzarli.

Per comprendere meglio questo parallelo con Lordstown, prendiamo una lavoratrice di Mirafiori: età nella media degli operai attualmente impiegati, ossia sopra i 47 anni. Il suo lavoro consiste nel montare una guarnizione tra la scocca e il parabrezza dell’auto. Per realizzare questa operazione, supponiamo che l’operaia debba compiere quattro operazioni base: a) posizionare la guarnizione con due mani; b) prendere i bulloni in numero di quattro; c) posizionarli uno per volta; d) avvitarli. Supponiamo ora che per svolgere queste operazioni col modello UAS si impieghi un tempo base d’esecuzione complessivo pari a 14,5 secondi. Supponiamo ancora che la postura non sia particolarmente disagiata e che il sistema ERGO-UAS, poiché i bulloni e la guarnizione sono molto leggeri e per posizionarli non occorre esercitare una particolare pressione con le dita, associ a questa serie base un fattore di maggiorazione pari allo 0%. Allora, utilizzando la formula (1) del tempo standard si ha: tempo base (14.5 sec) + 0.14 sec ( 1% di 14.5) + 0 sec. (“f. magg.” ergonomico) = 14.64 sec.

Se ora raffrontiamo questi valori con la metodologia definita nell’accordo del ‘71, in vigore ancora per poco, vediamo che dati un tempo base pari a 14.5 secondi e un fattore di maggiorazione pari a 1 secondo (è il tempo previsto per compensare, al di là del rischio di patologie, la “fatica” del lavoro ripetitivo), si ha un tempo standard pari a 15.5 secondi.

In altre parole, la nostra operaia se prima per montare la sua guarnizione aveva a disposizione 15 secondi e mezzo, ora con l’ERGO-UAS, per completare l’operazione, ne avrà poco più di 14 e mezzo. La Fiat, dunque, solo sul posizionamento di quattro bulloni e una guarnizione, ha recuperato dalla sua lavoratrice il 6% del tempo. Di conseguenza su una giornata lavorativa di 420 minuti, escluse le tre pause da dieci minuti e prima della mensa a fine turno, recupera circa 25 minuti e ciò a parità di stipendio e/o riduzione della giornata lavorativa.

In conclusione, è vero che con il nuovo sistema la postura è migliorata ma a trarne vantaggio non è la nostra operaia, che ora dovrà compiere in un minuto un maggior numero di operazioni dello stesso tipo, ma l’azienda che caeteris paribus potrà ridurre il numero dei lavoratori impiegati ed estorcere da quelli rimasti una quantità accresciuta di plusvalore.

Poi, pur volendo concedere che il nuovo sistema riduca effettivamente il rischio di patologie legate alla postura, resta che con esso l’operaio, per poter sopravvivere come essere umano, deve accettare la totale negazione di se stesso e farsi cosa fra le cose, anzi cosa al completo servizio della macchina. Nulla durante il lavoro gli appartiene; neppure la sua gestualità e la gestione dei suoi bisogni fisiologici. Anche l’ultimo centesimo di secondo della sua giornata lavorativa appartiene, tramite la macchina a cui è subordinato, al Capitale. “ Come nella religione, – scriveva circa 170 anni fa Marx- l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene a un altro: è la perdita di sé. Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali ( ora, come abbiamo visto, neppure in queste – ndr) come il mangiare, il bere, il procreare e tutt’al più l’abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale.[19]

Ma per il capitale questa è la modernità, questo è il regno della democrazia e della libertà.

A. Noviello e G.Paolucci


[1] Qui stiamo supponendo che plusvalore si trasformi tutto in profitto, in realtà normalmente esso si suddivide in tre parti: Profitto, Interesse e Rendita.

[2] C. Napoleoni – Elementi di Economia Politica ed. La Nuova Italia – 1968 – pag.129

[3] K. Marx – Il Capitale- libro primo – Cap. 13° pag. 500-501 – Ed Einaudi – 1978

[4] Ib. pag. 499

[5] LA NEWCO DI MIRAFIORI ED UN MEDIO EVO “PROSSIMO VENTURO” GIA’ ATTUALE, Gianfranco Greco.

[6] Accordo Mirafiori allegato n.7

[7] Accordo Mirafiori allegato n.7 seconda parte.

[8] La Repubblica, Paolo Grisieri: “La fabbrica che non spreca un minuto”.

[9] il Fatto Quotidiano, Salvatore Cannavo’ “La fatica di lavorare in Fiat”.

[10] Accordo di Mirafiori sezione “Lavoro straordinario produttivo”

[11] idem

[12] Il just in time, è un’espressione inglese che significa “appena in tempo”. E’ la cosiddetta filosofia industriale WCM per cui si produce solo ciò che è stato già venduto o che si prevede di vendere in tempi brevi senza accumulare scorte in Magazzino per cui anche l’acquisizione dei materiali necessari per la produzione della merce venduta o che si prevede di vendere e la loro messa a disposizione nel segmento del ciclo produttivo considerato vengono rigorosamente pianificate in modo da ridurre al min imo le scorte in Magazzino e i relativi immobilizzi di capitale. .

[13] Al riguardo è estremamente interessante la lettura dell’importante saggio di B. Geremek Uomini senza padrone – Einaudi 1992.

[14] La fabbrica integrata Giannarelli 1995 – Intervista a Donato Esposito.

[15]Harry Braverman – Lavoro e capitale monopolistico – Edizioni Einaudi, 1978. Introduzione: ”Insoddisfazione per il lavoro negli anni 70”.

[16] Ib.

[17] Ib.

[18] Ib.

[19] K. Marx – Manoscritti Economico-filosofici del 1844 – pag. 75 – ed. Einaudi 1968

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