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Un’esperienza di lotta nel Sud Italia

Dalla  rivista  D-M-D’ n °3

[1]“I nuovi miserabili”

Pubblichiamo di seguito un’intervista a Luca, informatico di 37 anni, lavoratore presso uno stabilimento nel Sud Italia di una nota multinazionale. Per proteggere con l’anonimato il compagno intervistato, impieghiamo uno pseudonimo per chiamarlo e non riportiamo il nome dell’azienda. Ciò che è importante, al di là della cronaca, è qui offrire materiale di riflessione sulle concrete condizioni, nella crisi contemporanea, della vita e del lavoro di un giovane salariato, con una laurea, una professionalità ad alta specializzazione, una famiglia con tre bimbi ancora piccoli. Un caso non isolato, ma emblematico per molti versi, e che in quanto tale presentiamo all’attenzione dei nostri lettori e dei compagni. L’intervista ruota intorno agli avvenimenti che hanno seguito l’avvio di un piano di ristrutturazione dell’azienda: dismissione del sito con un passaggio di proprietà e delocalizzazione di importanti comparti lì dove la forza lavoro viene acquistata con pochi dollari al mese. La reazione dei lavoratori inizia in breve ad assumere le drammatiche forme della disperazione. Come da tempo ormai sta accadendo, asserragliamenti sui tetti, minacce di darsi fuoco e altre manifestazioni di impotente spettacolarizzazione sono stati la strada che i lavoratori hanno seguito per farsi sentire.Guardare negli occhi Luca, che ci racconta la sua esperienza e la sua vita, conoscere sua moglie e i suoi bambini, rende ancora più odiosa l’enfatizzazione di queste forme di estrema ricerca di visibilità, da parte dei tanti che si riempiono la bocca di roboante fraseologia massimalista.

Gli stessi che esaltano l’”autorganizzazione” di lavoratori deboli, divisi, in un contesto complessivo dove la lotta di classe la conduce in pratica la sola borghesia. L’intervista rilasciata da Luca ci offre materiale vivo di riflessione sulla pochezza di questo chiacchiericcio spontaneistico. Ma l’importante testimonianza che ci offre questo compagno riguarda anche un altro elemento, che crediamo meriti forte attenzione. Giovani che hanno passato anni a specializzarsi nelle università, con Master, attraverso un’esperienza lavorativa ad alta professionalizzazione, vedono spezzato il nesso tra questi trascorsi e la loro condizione di vita.

La possibilità di sostituire lavoratori ultra-specializzati, come ingegneri, fisici, informatici, è diventata di estrema facilità: le competenze richieste si semplificano, le formazioni e i saperi perdono peso contrattuale. Strati di lavoratori che erano in passato (un passato non così lontano) considerati privilegiati, stabili, con redditi che infondevano serenità e fiducia nel futuro, finiscono per essere tendenzialmente assimilati a quelli meno qualificati. Un’insicurezza così grave che un tempo era appannaggio prevalente degli “esclusi”, dell’esercito di riserva, dei disoccupati o di chi aveva una posizione intermittente nel mercato del lavoro. Insicurezza che oggi invece è data in queste forme precipue non dall’essere fuori, ma dallo stesso essere “dentro”[2]. L’orizzonte di vita di Luca è stato nel tempo adombrato dall’incertezza, dalla minaccia del licenziamento, dall’incubo di non sapere come garantire qualcosa ai propri figli che crescono.

Molti altri come lui entrano nel mondo del lavoro, quando vi entrano, vivendo come ordinaria questa ipoteca sul proprio domani. Nel 2009 il quotidiano “La Repubblica” propone un quadro del “Paese dei senza lavoro”. Lo commenta Luciano Gallino, che divide le persone che si raccontano in due gruppi. Il primo è fatto da persone ”ancora giovani, al massimo trentacinquenni, che si interrogano sul perché il mondo della produzione non riesce più a trovar loro un’occupazione”. Un secondo gruppo comprende persone con “45-50 anni e oltre, le quali hanno compreso che per lo stesso mondo sono ormai troppo anziane”. Le caratteristiche del primo gruppo sono “titoli di studio elevati” che tuttavia “sembrano servire poco per trovare o mantenere un posto di lavoro qualificato, coerente con gli studi fatti”. Plurilaureati, con master, specializzazioni, esperienze all’estero. “Speravano di far ricerca in aziende di alto profilo, quelle da cui escono le invenzioni che cambiano il mondo e migliorano la vita. Contavano di guadagnare bene e di fare prima o poi un figlio. Oppure di dedicarsi all’insegnamento.

Invece si ritrovano a fare il garzone di cucina in un fast food, la badante o l’addetto alle pulizie sui vagoni delle ferrovie. Con paghe effettive da 6 euro l’ora, quando va bene 800 al mese. Naturalmente con un contratto a breve scadenza. Che alla scadenza non viene rinnovato”.

Sono giovani che insistono, provano e riprovano. “Fino a quando non ci si arrende, e si ritorna a casa dai genitori, senza soldi e senza figli, portando con sé il senso di una sconfitta di cui non si ha colpa, ma che pare irrimediabile”.

Il secondo gruppo, poiché “ai tempi della crisi l’impresa deve dimagrire”, si ritrova di nuovo a cercare un lavoro. “La dirigente o il tecnico con decenni di prezioso sapere professionale, o l’amministratore che maneggiava miliardi, cominciano a spedire curricula in giro. Decine alla settimana. Centinaia al mese. Con i titoli di studio in evidenza, la carriera in aziende di primo piano, i risultati eccellenti della propria attività. In generale non ricevono nemmeno risposta. Nessun Direttore per le Risorse Umane prende oggi in conto l’assunzione di una persona che oltre ad avere già superato i 45 o i 50 anni, si è pure fatta licenziare”.

Da non trascurare gli elementi evidenziati da Gallino come caratteri comuni dei due gruppi: “il primo è il senso di umiliazione che traspira dai loro scritti, di ingiustizia gratuitamente subita”. “L’altro elemento in comune è il risentimento, se non la rabbia, verso chiunque svolga un ruolo in campo economico”. E conclude che “è vero, non si tratta d’un campione rappresentativo, a fronte dei milioni che si trovano in condizioni simili. Ma chi sottovalutasse il significato sociale e politico di questi racconti di ordinaria disoccupazione commetterebbe un madornale errore”[3].

Vivere questa radicalizzazione dei rischi apre a nuovi scenari dove la vulnerabilità degli individui diventa predominante.  Anche sotto un profilo di percezione, se in passato un momento di difficoltà veniva affrontato come uno “spiazzamento” limitato nel tempo, una anormalità all’interno di un percorso stabile, oggi la sua cronicizzazione porta a familiarizzare con l’incertezza, con la fragilità.

Messi l’uno contro l’altro, con vertenze gestite una ad una, privi di ogni forza che viene dalla coscienza e dai numeri, i lavoratori si trovano con una debolezza estrema di fronte al capitale. Diventa così lacerante, come si può riscontrare anche dall’intervista, la contraddizione che si crea tra una crescente “perdita di opportunità” e la contestuale “diffusione di desideri e <<legittime>> aspettative”[4]: perché questa incertezza del presente e angoscia relativa al futuro si acutizza laddove la creazione di “nuovi bisogni”, la fame di nuovi consumi, materiali e immateriali, assume forme e dimensioni storicamente inedite. In un passaggio dell’intervista, Luca denuncia la condizione di pressione psicologica ed emotiva che si riflette nella vita quotidiana, nel rapporto con la compagna e coi figli, che, dice Luca, sfociano “spesso in manifestazioni irrazionali ed isteriche di un vivere che non è più tale”.  “Il sentimento di incertezza si trasforma in sentimento di frustrazione e di ingiustizia – sottolinea Stefano Tomerelli – e il fallimento personale tende a essere vissuto con un sentimento di ingiustizia di fronte al successo dell’altro”[5]. “Indifferenza e irritazione sono tendenzialmente caratteristiche comuni, ma condividere l’irritazione non trasforma le singole vittime in una comunità. Il nostro genere di insicurezza non è il materiale di cui sono fatte le cause comuni, le posizioni unitarie e l’azione solidale”[6].

L’atomizzazione profonda esaspera la tendenza. “La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito la perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e l’umiliazione. Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti”[7].

Quando parliamo di impoverimento dei venditori di forza lavoro possiamo pertanto arricchire il concetto, dal punto di vita individuale e sociale, con quello della vulnerabilità. In questo senso l’esperienza di Luca è particolarmente indicativa. Lo è proprio perché non parte da una categoria tradizionalmente povera o tendente alla povertà. Al contrario. E tuttavia il processo di vulnerabilità che nasce sa forse essere di violenza anche maggiore. Troviamo un punto di partenza interessante nella definizione di questo processo come combinazione di “accesso intermittente alle risorse materiali fondamentali (lavoro, protezione sociale)” di “fragilità del tessuto relazionale” e inadeguatezza rispetto alla condizione cronica di fragilità delle “risorse culturali personali e/o familiari” e delle “strategie progettuali”, inficiate dalla incertezza sul domani[8]. E’ una forma di disagio profondo che attraversa tutti gli strati dei lavoratori, che si alimenta anche della perdita “del valore dell’esperienza”[9].

Non contando più i saperi e le competenze accumulate mediante l’esperienza, la drammatica incertezza sul futuro non trova nel proprio bagaglio, nella propria vita passata, una fonte di garanzie sulla possibilità di riuscire a farcela. Materiali che possono contribuire alla riflessione sulla condizione attuale del proletariato e sulle prospettive che oggi ha il socialismo.

L’intervista

Domanda. Ciao Luca, grazie dell’intervista. Iniziamo dalla crisi dell’azienda. Quando è cominciata?

Risposta. Quella che mi ha riguardato in prima persona, risale a due anni addietro. Proprio all’inizio della crisi mondiale del 2007, l’azienda lancia un programma di delocalizzazione, che sopprime le fabbriche in tutta Europa. Un programma che sposta definitivamente le attività del comparto produttivo nei Paesi a basso costo forza lavoro. Risparmiando solo qualche produzione specialistica e di forte contenuto tecnologico.

D. Qual era la situazione dell’azienda prima della crisi?

R. Partiamo con un riferimento temporale che coincide con l’inizio del nuovo millennio.

La multinazionale, dieci anni addietro, aveva ampiamente avviato un processo che coniugava la ricerca di mercati nuovi con lo sfruttamento della forza lavoro nei paesi Asiatici in particolare, ma anche in Est Europa, Africa e nelle Americhe.

E’ stato un percorso che chiaramente non è iniziato col nuovo millennio, ma i suoi primi effetti visibili per noi lavoratori coincidono con questo periodo. Solo in Italia, dieci anni fa, la multinazionale aveva quasi diecimila dipendenti, ora ne restano a malapena duemila. Era un comparto produttivo molto radicato sul territorio, con settori di ricerca ed innovazione tecnologica molto dinamici. L’utilizzo dei lavoratori precari era molto basso, e la possibilità di ricoprire ruoli sempre diversi era relativamente facile. In media le opportunità di costante avanzamento professionale erano realistiche. Non dimentichiamoci che ci si trovava nel pieno del boom della cosiddetta “new economy”, di quella che si spacciava per “economia virtuale”, legata soprattutto alla diffusione della rete e dei suoi contenuti. Ma anche dell’esplosione della speculazione finanziaria e dell’indebitamento facile.

D. Puoi darci un’idea della composizione dei lavoratori nell’azienda?

R. In generale, come in tutte le multinazionali, esistono più livelli e mansioni di lavoratori; si va dal CEO (Chief Executive Officer), quindi dai direttori generali, ai responsabili di aree, ai dirigenti locali, fino ai capi reparto e infine ai lavoratori con mansioni sempre più parcellizzate nel processo produttivo. I lavoratori di base, poi, o sono inquadrati con contratti a tempo indeterminato, o sono precari con contratti a termine, rinnovati in base ai carichi di lavoro e al comportamento dei lavoratori stessi; in più c’è una buona fetta di consulenti o di esterni.

D. Quanti sono i laureati?

R. Nel comparto produttivo, la laurea è richiesta solo per i controllori del processo produttivo, ad esempio elettronici o informatici; sono in percentuale il 10% circa della forza lavoro. Nel comparto di ricerca ed innovazione, la situazione si ribalta totalmente, con informatici, fisici, matematici, elettronici, tutti laureati. Voglio far notare comunque che le conoscenze e le competenze accumulate dai lavoratori in generale sono utilizzate in minima parte, in quanto la meccanizzazione del processo produttivo stesso richiede sempre più osservatori e pianificatori di processo; mentre la parte fisica è relegata totalmente alle macchine.

D. Sei laureato?

R. Sì, in informatica.

D. Quando sei entrato in questa multinazionale?

R. Sono entrato nel 2001. Ma provenivo da altre esperienze lavorative. All’epoca non ho trovato difficoltà a cambiare lavoro.

D. Con quali prospettive di vita hai iniziato a lavorare?

R..Avevo dei sogni nel cassetto, e nemmeno tanto impossibili da realizzare. Soprattutto vedevo intorno a me la possibilità, lavorando, di costruire qualcosa. Insomma, dopotutto nessun grillo per la testa, ma la voglia di mettere in gioco le mie capacità, di trovare qualche ruolo attraverso il lavoro e lo studio fatto in precedenza.

D. Hai messo su famiglia dopo aver trovato lavoro?

R. Non subito. La mia compagna, anche lei informatica, aveva iniziato un lavoro precario all’università. Quindi le condizioni non ci permettevano di fare subito dei progetti. Poi, tirando molto la cinghia, abbiamo messo su famiglia.

D. La crisi dell’azienda come ha modificato le tue prospettive di vita? Quale impatto hai avuto sul quotidiano?

R. L’impatto della crisi è stato devastante. Te ne accorgi anche quando ne parli con gli amici, tra i quali predomina l’incubo della perdita di lavoro, e quindi dell’unica fonte di reddito. Ritornando alla “cinghia” da stringere, abbiamo dovuto aggiungervi molti buchi, abbiamo ridotto all’osso le spese. Chiaramente, ai piccoli abbiamo cercato di garantire un livello di vita dignitoso, ma l’aria che si respira in casa è quella dell’incertezza e della precarietà continua. Anche l’umore, sia mio che della mia compagna, che lavora un mese ogni sei, ne esce, per così dire, deformato. A volte, e la cosa mi spiace molto, bisogna recitare per non trasmettere questo malessere ai nostri piccoli; ma non sempre ci si riesce.

D. Che tipo di differenze di salario, e di stabilità, c’erano prima della crisi tra operai e personale  altamente specializzato, come ingegneri, fisici o informatici? Con la crisi, cosa è successo?

R. Prima della crisi, come detto prima, le prospettive in generale non erano quelle che ci ritroviamo ora: non si avvertivano mediamente nubi scure all’orizzonte. Per cui, un laureato o un operaio ultra specializzato viveva con la convinzione di poter comunque migliorare la propria condizione di vita e il livello salariale: ma lo stesso accadeva per gli operai generici. Le differenze principali erano nei tipi di rapporto di lavoro, ossia di tipo continuo o indeterminato, o ad intermittenza e quindi precario. Questo tipo di differenziazione è importante, in quanto, almeno dove lavoro io, determina la possibilità di accedere, ad esempio, ai bonus di produzione, o comunque di avere una busta paga tutti i mesi o meno. Quindi una differenza di base, già molto evidente. Poi, oltre alla questione del salario, c’erano gli orari di lavoro meno flessibili per i precari, come pure per gli addetti stretti alla produzione, rispetto ad ingegneri o agli organizzatori della “catena di montaggio”. Differenza ancora più marcata tra questa fascia intermedia di specializzati e i dirigenti. Tra questi ultimo le condizioni sono migliori sotto tutti i punti di vista, a partire da salari due o tre volte più alti.. Gli orari di lavoro dei dirigenti sono totalmente flessibili ed autogestiti, con la possibilità di lavorare anche da casa. Se poi arriviamo ai livelli più, alti fino al CEO, troviamo cifre che a stento sembrano vere: stipendi altissimi, bonus di tutti i tipi ingozzano questa fascia di privilegiati. Si può immaginare il tutto come una piramide rovesciata: chi sta più in alto prende quasi tutto, chi sta alla base solo la punta! Dopo la crisi, le conseguenze si sono avvertite soprattutto per chi in precedenza aveva messo da parte molto poco o si era indebitato, come i precari o l’operaio meno specializzato. Per le fasce intermedie, le condizioni di vita sono comunque – notevolmente – peggiorate. Per quelle alte, sono aumentate le retribuzioni e i compensi. Questa volta, insieme al resto, c’è un ulteriore bonus: il numero di licenziamenti fatti, e in generale tutta la gestione dei postumi delle ristrutturazioni.

D. Qual è stata la reazione dei lavoratori alla crisi dell’azienda? Quali sono state le mosse dell’Azienda per affrontarla?

R. Dopo l’annuncio che la ristrutturazione avrebbe coinvolto anche il nostro sito produttivo, e che gli scenari futuri erano tutti indecifrabili, si sono avute le prime reazioni di una certa importanza da parte dei lavoratori. Consideriamo che molti di loro, a vario livello, o erano intruppati nei sindacati maggiormente filo-aziendali, o erano comunque controllati attraverso il meccanismo della raccomandazione e del rinnovo contrattuale. Questo garantisce all’azienda un alto potere ricattatorio, soprattutto in un territorio cronicamente deficitario di offerte lavorative. Quando lo spettro della perdita del lavoro si e’ materializzato, allora si sono visti i primi gruppi di lavoratori, non molto consistenti ma comunque proattivi, che hanno iniziato a indire scioperi e a tallonare le organizzazioni sindacali. Sono stati pressati anche i vari politicanti del territorio, attraverso un comitato di lotta formato principalmente da precari e da operai generici.L’azienda aveva approntato un piano anche molto sofisticato e ben rodato, prevedendo già la possibile reazione. Il piano, che e’ poi quello usato e riusato anche in altre vertenze simili, consisteva nel divide et impera, creando cosi’ più fronti interni ai lavoratori stessi, con interessi contrastanti e favorendo un clima di forte litigiosità, all’interno e all’esterno del comitato.

D. C’erano precedenti esperienze di lotta dei lavoratori nell’azienda?

R. Prima di questa vertenza, la capacità di lotta era inesistente, e i vari scioperi nazionali avevano una partecipazione quasi nulla. Anche i rudimenti di coscienza in sé, per questa ragione, erano inesistenti. Ricordo moltissime manifestazioni per il rinnovo contrattuale, letteralmente boicottate, oppure la scarsa solidarietà con altri lavoratori in lotta, anche della stessa azienda. Un clima davvero deprimente.

D. Perché, per la prima volta, i lavoratori hanno scelto di occupare la fabbrica?

R. All’occupazione si è arrivati per gradi. All’inizio della vertenza vera e propria, i lavoratori non avendo esperienza di lotta, hanno iniziato a sindacalizzarsi; poi hanno pensato che il politico di turno, per questioni di voto potesse dare una mano e sbloccare la questione, con una pressione sulla multinazionale, attraverso tavoli ministeriali. Per cui si sono prostrati a tutte le sigle dei partiti dell’arco costituzionale. Le assemblee sonnolente degli anni precedenti si sono trasformate in riunioni vulcaniche e partecipate, e in tutto questo fermento qualche testa ha iniziato a ragionare sulla propria condizione, e a stancarsi del metodo di lotta condotto. L’incancrenirsi della situazione, e la totale inamovibilità dell’azienda, ha definitivamente convinto alcuni lavoratori che andava fatto qualcosa di più, e sull’esempio dell’Inse a Milano, o delle fabbriche francesi con i dirigenti sequestrati, si è passati alla prima occupazione di settembre che è durata una settimana.

D. Che collegamenti ci sono stati, se ci sono stati, al di fuori della fabbrica?

R. Durante la prima occupazione, avevamo deciso di andare davanti alle fabbriche della zona, e chiedere solidarietà e soprattutto partecipazione ai lavoratori. E, devo dire, nonostante la situazione di crisi globale che avvolgeva il mondo del lavoro, molti si sono dimostrati vicini e hanno partecipato al presidio sia di notte che di giorno. In questo clima, si e’ parlato delle proprie condizioni di lavoro, e il confronto ha creato maggiore consapevolezza riguardo chi stava pagando realmente la crisi e chi, poi, ne era maggiormente responsabile. Insomma sembrava di assistere a una sorta di bella “evoluzione della specie”. Probabilmente questo clima d’unione, seppur nei limiti dei numeri, ha messo in allarme la multinazionale e soprattutto il ministero, anche considerato che in quel periodo le occupazioni iniziavano ad essere numerose, e la situazione generale rischiava di sfuggire di mano, con scenari imprevedibili. Poi alla prima occupazione ne è seguita un’altra.

D. Perché i lavoratori hanno scelto di occupare la fabbrica per la seconda volta?

R. Avevamo ricevuto rassicurazioni che la multinazionale avrebbe rivisto il piano di ristrutturazione. E, con impegni formali presi con i lavoratori da parte del governo, che partecipava ora come garante, termina la prima occupazione. Durante questa nuova fase, mano mano che i tavoli febbrili si susseguivano, ci si rendeva conto che di promesse e d’ impegni è lastricata la strada che porta dritto i lavoratori all’inferno. Infatti, già verso ottobre, è chiaro che la situazione era di fatto peggiorata, in quanto la multinazionale riteneva il governo non affidabile (sic!), e di essere quindi libera di trattare, con chi vuole, alle condizione imposte dall’azienda. La situazione si fa sempre più difficile, e molti lavoratori pensano che oramai la partita sia chiusa. In un clima di pessimismo generale, poche persone decidono, questa volta veramente disperate, di rioccupare la fabbrica. Siamo a febbraio. Ed inizia il mese più lungo e difficile di tutta la vertenza. Si cerca di ricreare di nuovo il clima di settembre, ma questa volta la solidarietà dei lavoratori manca. In una tenda, si alternano di notte e di giorno una ventina di persone, con turni di presidio davvero estenuanti. L’azienda, minacciando la chiusura totale, crea tensione davanti ai cancelli, mettendo lavoratori contro lavoratori. Ma dall’interno della fabbrica i lavoratori non mollano. Alla fine, dopo continue trattative tra sindacato, lavoratori occupanti, politici ed azienda, si decide di rivedere il piano di uscita della multinazionale, con un acquirente sponsorizzato dal ministero, e con un piano preciso di assunzioni dei lavoratori precari. Sembra una vittoria, ma non lo è: si è solo cambiato padrone. Per molti lavoratori non è poco. Vedremo.

D. Qual è stato il ruolo del sindacato?

R. Il suo ruolo storico: annullare il più possibile le istanze reali di classe, e diluirle in funzione della trattativa, ma sempre sbilanciata e a perdere.

D. Qual è stata la tua posizione nella lotta? Come si sono relazionati a te i lavoratori?

R. Non mi considero un leader. La mia posizione nella lotta è stata sempre la stessa: stare con i lavoratori e definire le istanze di classe nella lotta. Cercare di ragionare insieme sulle possibili insidie, sul ruolo del sindacato, sul ruolo di classe del governo (e dello Stato). Mi è servito molto studiare la crisi, e avere una preparazione teorica (certamente ancora da raffinare e da raggiungere) per comprendere la natura  del capitalismo. E’ stata anche importante la consapevolezza della riduzione a semi-schiavo del lavoratore contemporaneo. Questo ha favorito il confronto e la ricerca da parte degli altri lavoratori del mio punto di vista, senza equivoci di opportunismo. Anche se spesso ho riservato critiche pesanti alla gestione della lotta e dell’occupazione. Cosa che continua adesso, visto che la situazione, pur essendo migliorata nel breve periodo, riserva comunque incognite gravi per il futuro.

D. Che impatto ha avuto la crisi economica sulla vita aziendale? Avete avuto un impatto tangibile sulle condizioni di lavoro e di vita?

R. La recente crisi è stata un acceleratore di tutti i processi di ristrutturazione delle fabbriche. La ricerca di profitti attraverso le esternalizzazioni in Paesi con forza lavoro low cost, e la contrazione dei mercati in occidente, ha fatto sì che l’azienda, insieme a tante altre, iniziasse a buttare sul lastrico centinaia di lavoratori. Chiaramente questo comporta un’assoluta instabilità del lavoratore, e una definitiva precarizzazione delle condizioni generali di vita. L’impatto tangibile è che si accettano orari di lavoro più lunghi e non pagati, piani di cassa integrazione anche quando c’è lavoro, e decisioni capestro senza fiatare; tutto pur di non restare disoccupati. Poi mettiamoci pure la vicenda Pomigliano-Mirafiori, che ha dato un ulteriore colpo ai diritti (oramai labili) generali, perché quest’ultima è la traccia da seguire per tutte le aziende. Siamo all’utilizzo più brutale della forza lavoro. Ecco che il quadro diventa oramai chiaro e limpido: ci riduce ad alieni a noi stessi, del tutto vulnerabili nelle mani del capitale.

D. Ci hai offerto un quadro molto chiaro di cosa è successo. Quale commento è possibile aggiungere sull’esito della lotta?

R. Da un punto di vista tecnico, l’esito dell’ultima occupazione ha portato alla vendita della parte produttiva, e il disimpegno dell’azienda sul territorio, raggiungendo così l’obiettivo minimo che si era riproposta. Questo infatti ha consentito a una parte molto piccola di precari storici di essere assunti dalla nuova proprietà, mentre i più anziani sono stati messi in prepensionamento, con il mantenimento formale dei diritti acquisiti in precedenza, più un bonus di indennizzo elargito come buonuscita, corrispondente a qualche mese di stipendio. E’ chiaro però che c’è stato un travaso con perdita. Si è cambiato in peggio: a una realtà forte, che esportava i prodotti sul mercato mondiale, se n’è sostituita una nuova ridimensionata, che si muove in un ambito molto circoscritto. Questo, unito alle condizioni generali molto peggiorate, ha creato il risultato finale che si naviga a vista e con il rischio molto concreto di perdere il lavoro.

D. Quali ti sono sembrati i principali errori? Cosa è mancato nel concreto per andare avanti?

R. Molti errori hanno un’origine lontana. Innanzitutto si deve sottolineare la scarsa o nulla coscienza in sé dei lavoratori, quindi è mancata la consapevolezza delle proprie forze e soprattutto del proprio ruolo. E’ mancata la capacità di comprendere che i lavoratori, se uniti, possono ricavare qualcosa dalla lotta immediata, almeno in termini di forza e coesione. Chiaramente questa coscienza in sé non la si ottiene con una siringa o una pillola, è un processo che può richiedere molto tempo, ma pure avere tempi accorciati, anche grazie a un gruppo di lavoratori organizzati su istanze di classe. Si è pagato l’errore fondamentale di non partecipare alle lotte di altri lavoratori, perché non riguardava direttamente se stessi. Il risultato è stato l’isolamento dei lavoratori, di fronte a una borghesia fin troppo organizzata, con la forza dello Stato e supportata dal sindacato. E’ mancata quindi un’avanguardia consapevole, e soprattutto agguerrita su obiettivi di classe.

E’ chiaro che non ci si aspettava la rivoluzione da questa lotta, tantomeno una fantomatica ripresa della lotta di classe, ma almeno un primo indizio di inversione di tendenza, rispetto alla deriva generale del proletariato occidentale, oramai totalmente stuprato dalla classe contrapposta. Come pure mi aspettavo una critica più organica alla natura del sindacato, invece niente.

D. Qual è attualmente la situazione?

R. Purtroppo, non penso che questa esperienza abbia insegnato molto ai miei colleghi, perché, una volta che si sono calmate le acque, tutto è ripreso come prima, anzi molto peggio di prima. Il sindacato controlla totalmente il luogo di lavoro, i più decisi nella vertenza sono stati isolati dai lavoratori stessi, le commesse sono diminuite, la crisi mondiale si fa più complicata e si riflette direttamente sulle condizioni generali e particolari di noi lavoratori. I lavoratori hanno ripreso le loro divisioni interne, e, per esempio, quando si è trattato di manifestare contro l’accordo Marchionne, la partecipazione e’ stata pressoché nulla. Purtroppo, le premesse sono pessime.

D. Che fiducia puoi riporre oggi sul futuro della tua famiglia? Che prospettive concrete avete? C’è timore sul futuro tuo e dei tuoi figli? Com’è gestita oggi la tua vita quotidiana, e quali differenze col passato?

R. Per quanto riguarda me e la mia famiglia, come detto prima, i sacrifici sono aumentati enormemente. Si guarda al futuro con estrema preoccupazione. E soprattutto non si esclude la possibilità di perdere il lavoro, anche a breve. Questo significa adattarsi poi a fare di tutto per racimolare il necessario per sopravvivere, piegandosi a qualsiasi tipologia di lavoro e a qualsiasi condizione. Avendo bocche da sfamare, non si può andare per il sottile, e la cosa che più mi colpisce è che dopo tanti sacrifici personali per migliorare la condizione di vita mia e della famiglia, mi trovo di fatto in uno stato peggiore.

La vita quotidiana e’ diventata insostenibile, il peggioramento delle condizioni generali di vita si riflettono anche nei rapporti con le persone. Le mura domestiche poi sono diventate un ring, dove a volte la repressione e la rabbia accumulata fuori trovano sbocco, spesso in manifestazioni irrazionali ed isteriche di un vivere che non è più tale. A volte, per questioni di poco conto dentro casa, si discute animatamente anche davanti ai piccoli. Si porta da fuori un’aria mefitica, e ci si sente come una pentola a pressione sempre al limite. Con queste premesse, i bambini, che sono i più sensibili, ne patiscono tutte le conseguenze.

D. Hai un sostegno che ti consente di affrontare i momenti peggiori di vita? Genitori, compagni o altri supporti possibili?

R. Ho la fortuna di condividere con alcuni compagni la stessa situazione, per cui ci si organizza nel possibile. Certo i genitori, quando possono, danno una mano. Ma non si può pensare che siano la soluzione per tirare avanti, in questa situazione generale.

D. Sei un lavoratore ad alta specializzazione, laureato, un profilo che un tempo sarebbe stato ritenuto privilegiato rispetto a un operaio semplice. Quale ti sembra essere oggi la condizione tua e dei lavoratori del tuo tipo? Con quale sguardo ti rivolgi agli anni di studio e sacrificio sui libri?

R. E’ stato tutto appiattito verso il basso. Poi l’iper-specializzazione ti pone in un settore di economia sempre più di nicchia. Quando entri poi sul mercato del lavoro, di per sé già in surplus di forza lavoro di ogni tipo, avverti in tutta evidenza le difficoltà. Quando ho iniziato a lavorare, credevo in quello che facevo; oggi mi rendo conto che se perdo quest’unico lavoro, ho due prospettive: o adattarmi a quello che trovo disponibile sul mercato, o ricominciare da zero imparandone velocemente uno nuovo. In definitiva, come delle macchine programmabili (quello siamo diventati) possiamo aggiornare le nostre capacità lavorative, semmai imparando da zero rudimenti nuovi; ma questo ci risolve la vita? Oppure dobbiamo più tranquillamente riconoscere che questo non è il sistema che può risolverla, ma buttarla sempre più nel fallimento?

Grazie, Luca, la tua esperienza sarà di certo di grande utilità per la riflessione di tutti i compagni. E’ una dimostrazione vivente e pratica di come anche lo stridore più acuto delle contraddizioni sistemiche del capitalismo non sia sufficiente a produrre una coscienza in sé e per sé del proletariato.

E’ propria dei parolai l’abitudine di gridare, senza connessioni al concreto, che è ora di costruire il partito rivoluzionario. Una frase che rischia di essere svuotata di senso come ogni slogan salmodiato perpetuamente senza intelligenza. Parole gettate al vento che si allontanano dai vissuti e dal sentire dei lavoratori, impegnati tutt’al più, quando è ora, a difendersi per come possono.

Pensiamo che l’esperienza raccontata nell’intervista possa testimoniare una volta di più che la necessità del partito sia reale. Perché la sua assenza, impedendo il processo di produzione di una coscienza di classe, pesa non nell’immaginario intellettuale di qualcuno, ma nella vita concreta e reale di donne e uomini.



1 Nicola Negri, Se non c’è più la cittadella, Animazione Sociale 11, novembre 2006

2 Luciano Gallino, Umiliati e arrabbiati, 4 Marzo 2009, La Repubblica

3 Nicola Negri, La vulnerabilità sociale, Animazione Sociale 8/9, agosto/settembre 2006

4 Stefano Tomerelli, Riscoprire i legami sociali solidali, AS 11, novembre 2006.

5 Z. Bauman, La solitudine del cittadini globale, Feltrinelli, 2000, Milano.

6 Z. Bauman, La società dell’incertezza, 16 settembre 2010, La Repubblica.

7 Animazione Sociale n.6/7 2008, Muoversi nel labirinto della quotidiana vunerabilità. A cura del Laboratorio di riflessione Fragili orizzonti

8 Ibidem.

9 Ibidem.

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